HANDEL – MESSIAH

Jordi Savall, La Capella Reial de Catalunya, Le Concert des Nations

29,99


Nel Messia di Handel troviamo all’opera, con una meravigliosa diversità, tutte le forme d’espressione e di declamazione vocale e strumentale caratteristiche del linguaggio barocco. Siamo di fronte a una sublime meditazione musicale che oltrepassa la semplice narrazione per raggiungere, lontano dal realismo di Gesù, il mistero stesso della Creazione e della Redenzione attraverso una triplice riflessione sulla lotta tra Luce e Tenebre, sulla redenzione dell’Umanità e infine sul rapporto tra Dio e gli Uomini.

 


GEORGE FRIDERIC HANDEL
Alla ricerca della luce
IL MESSIA

Per capire cosa significò il Messia per lo stesso Handel è necessario andare al momento della sua crisi spirituale, economica e fisica del 1737; quell’anno falliscono le principali compagnie d’opera, come l’Haymarket e l’Opera della Nobiltà (Nobility Opera). Il 13 aprile Handel viene fulminato da una paralisi e il 20 novembre muore la regina Carolina, la più costante delle sue protettrici e un’amica fedele. A tutto ciò si aggiunge la terribile e incessante pressione esercitata dalla doppia responsabilità di musicista e impresario per tutto il 1736 e l’ingentissima mole di lavoro svolto nel corso del 1737, che alla fine avranno la meglio sulla sua pur solida costituzione. Si pensi solo che, da gennaio, si succedono Partenope, Arminio, Parnasso in Festa, Alexander’s Feast, Il Trionfo, Esther, dove Handel interpreta, per la gioia degli spettatori, i suoi Concerti per organo, uno dei suoi successi maggiori. Ha appena licenziato la Berenice e già attende a un nuovo pasticcio, Didone abbandonata. Ma questa volta non può portare a termine l’opera: il 13 aprile viene colpito da una paralisi che immobilizza tutta la parte destra del corpo e coinvolge anche le funzioni intellettive; quello che una volta era un uomo d’acciaio appare ora in uno stato di penosa prostrazione. Il 14 maggio il London Evening Post dà la notizia della malattia che, «salvo guarigione, potrebbe privare il pubblico di belle composizioni». Il 18 maggio, in omaggio al musicista, la famiglia reale assiste comunque alla prima della Berenice. Ma, ormai senza la sua guida, l’impresa vacilla. L’ultima rappresentazione, andata in scena il 15 giugno, è destinata allo stesso compositore. Qualche giorno dopo la compagnia fallisce e Strada e Conti lasciano Londra. L’11 giugno anche la Nobility Opera cessa la propria attività.

Come ben segnalato da Jean-François Labie, nel 1737 la vita di George Frideric è a un punto di svolta: «Ha toccato il punto più basso della propria carriera. Per molti è un uomo finito. Sembra crollare tutto ciò che ha costruito con audacia, caparbia e una prodigiosa fiducia in sé stesso. D’altra parte, quello stesso anno vedrà il principio di una nuova carriera, l’inizio dell’ascesa verso una gloria ancora più grande e definitiva di quella che aveva conosciuto fino a quel momento». Possiamo allora porci alcune domande: fino a che punto il cambiamento profondo avvenuto in seguito a una violenta crisi fisica era già latente da qualche mese, o era invece la fame di successo, la rabbia per il fatto di essere sempre intralciato, contrariato nei suoi progetti, sopraffatto dai mediocri, ciò che gli impediva di esaminare con obiettività le ragioni del comportamento del pubblico e di vedere con chiarezza le possibilità di sviluppo di un’innovazione personale: l’oratorio. Un genere musicale che è percepito ormai come un divertissement e la cui connotazione religiosa è sempre meno avvertita, mentre l’opera italiana viene penalizzata dai pregiudizi puritani della nobiltà e della borghesia vicina al potere.

Ad ogni modo le allusioni alla sua malattia e a una serie di difficoltà di ordine psichico, menzionate da John Mainwaring nelle sue Memoirs of the Life of the Late George Frederic Handel, non ci devono sorprendere: «A causa di un attacco di paralisi perse completamente l’uso del braccio destro; e il grado di disordine in cui si trovavano i suoi sensi si fece evidente in molte occasioni, la qual cosa è meglio dimenticare che non ricordare. Le deviazioni più violente dalla ragione apparivano generalmente là dove le facoltà più brillanti risultavano distorte». Ignoriamo tutto della vita di George Frideric durante i suoi sei mesi di malattia, fatta eccezione per qualche vago riferimento di Mainwaring che lo descrive come un malato difficile. Poi, il 1° settembre, avendo ricevuto la raccomandazione di fare dei bagni termali, Handel ritira 150 libbre dal suo conto e parte immediatamente per Aquisgrana per fare delle cure intensive di bagni di vapore tradizionali. È impossibile sapere con esattezza quello che successe, ma il fatto sorprendente è che il compositore si ristabilì completamente in un modo quasi miracoloso.

L’unico documento che ci ricorda quello che accadde è ancora il testo di Mainwaring: «Si pensò che la cosa migliore per lui fosse ricorrere ai bagni di vapore di Aquisgrana. Vi faceva delle sedute tre volte più lunghe di quelle usuali. Da questo solo dettaglio chiunque conosca questi bagni può farsi un’idea della sua straordinaria costituzione. Sudò oltre ogni immaginazione. Un gruppo di religiose ritennero la sua guarigione un vero e proprio miracolo, tanto per il modo in cui essa avvenne quanto per la rapidità. Quando, alcune ore dopo che ebbe finito i suoi bagni, queste donne lo sentirono suonare l’organo, sia quello della cappella sia quello della chiesa principale, con una maestria tanto superiore a quanto avessero mai udito, non stupisce che degli spiriti come i loro giungessero a tale conclusione. Nonostante avesse risolto dunque i suoi problemi di salute, e potesse ritenersi completamente guarito, ritenne nondimeno prudente soggiornare a Aquisgrana ancora sei settimane, che si crede sia il tempo di cura minimo nei casi gravi».

Eppure, l’aspetto più notevole della vicenda non sarà l’intensità della cura a Aquisgrana grazie alle acque solforose, giacché, come sottolinea Jean-François Labie: «Aveva bisogno soprattutto di riposo, che è quello che gli assicurò il suo soggiorno lontano da Londra e dalle sue seccature; la fame di vita, questo tratto dominante del carattere handeliano, si traduce nella foga con la quale segue il suo trattamento, a un ritmo triplo rispetto a quello normale; la sua volontà di guarigione è già guarigione. È lui stesso a trovare il miracolo».

Il 28 ottobre il London Daily Post poteva annunciare il suo ritorno, «atteso ora dopo ora»; il 7 novembre lo stesso giornale scrive: «Mr. Handel è tornato da Aquisgrana, la sua salute è notevolmente migliorata». Il vecchio leone era già pronto a nuovi combattimenti. Il 13 novembre si lancia nella composizione di una nuova opera, Faramondo, ma i suoi piani sono stravolti dalla morte della regina Carolina, avvenuta cinque giorni dopo. Conosceva la regina fin dalla sua infanzia berlinese; con la sua scomparsa perdeva allo stesso tempo una cara amica e un solido sostegno. Per Handel si tratta di un lutto intimo. Con Funeral anthem ci lascia una delle sue opere più personali e più ricche, una composizione che riflette bene tutti i suoi sentimenti, e stupisce che sia assai poco conosciuta.

È in questo momento che Handel, viste le difficoltà a far rappresentare le proprie opere, si inclina a poco a poco verso l’omologo sacro di questo genere, l’oratorio, e verso la musica strumentale. Prepara i Six Concertos for Organ op. 4 e annuncia le Seven Sonatas for Two Violins or German Flute, opera quinta. Tra il 23 luglio e il 27 settembre scrive l’oratorio Saul, poi il 9 settembre comincia una nuova opera che abbandonerà subito per tornare, come spinto da una forza invisibile, alla vena religiosa. In un mese, dal 1° ottobre al 1° novembre, compone un nuovo capolavoro, Israel in Egypt, e lo stesso anno licenzia i Dodici concerti per strumenti a corde op. 6, mentre le sue ultime opere saranno dei fallimenti di pubblico e dei disastri finanziari.

«Applaudito per la sua musica da camera, i suoi concerti, i suoi oratori, Handel – si chiede Jean Gallois – fu contestato solo per le sue opere? Per gusto, per orgoglio, egli si rifiuterà di dichiararsi sconfitto e il 22 ottobre 1740 farà un nuovo tentativo con la composizione dell’Imeneo e poi, il 10 gennaio dell’anno successivo, di Deidamia. Questa volta deve proprio farsene una ragione: il pubblico gli tiene il broncio. Solo due repliche per la prima opera, tre per la seconda. L’avventura operistica si conclude con un doppio fallimento. La moda è cambiata e il pubblico si allontana da una forma, uno stile, un linguaggio che gli sembrano ormai di un’altra epoca. Se la prende prima con l’opera e poi con l’autore. La gentry lo tratta con freddezza, la borghesia lo contesta fino al punto di organizzare delle cene il giorno dei suoi concerti e di pagare qualcuno perché stracci i manifesti. In una situazione del genere gli conviene prendere le distanze dal pubblico».

Nel corso della sua vita Handel creò 32 oratori, un genere la cui composizione era basata su testi biblici sviluppati a mo’ di grandi affreschi sonori, ai quali egli conferì una dimensione autenticamente drammatica. Nel caso del suo Messia, un’opera che sfugge a qualsiasi categoria prestabilita, Handel trarrà ispirazione da un nuovo “libretto”, di Charles Jennens, formato da un mosaico di prestiti dalle Sacre Scritture: questo «Grande Oratorio sacro» gli varrà la gloria più di qualsiasi altra opera.

Lo stesso titolo di Messia si rivela peraltro fuorviante poiché, secondo la felice battuta di Jean-François Labie, Cristo è assente dall’opera almeno quanto lo è l’Arlesiana dall’omonima composizione di Bizet! Riguardo alla denominazione di oratorio, essa appare meno adatta a questo vasto affresco sonoro di quanto non lo sia quella di “contemplazione”, scelta da Telemann per il suo Messia. Come segnalato da Olivier Rouvière, questo nuovo testo di Jennens «non dà luogo a una “trama” e non mette in scena personaggi – Cristo non appare mai, non prende mai la parola e viene nominato soltanto una volta, nel penultimo coro! Il testo non prevede alcuna divisione in quadri, scene o numeri. Tutt’al più si può ritenere che le sue tre parti di lunghezza diseguale corrispondano ai tre “eventi” considerati essenziali dalla liturgia cristiana: La Prima parte, tratta soprattutto dalle profezie di Isaia e dai Vangeli, è incentrata sull’episodio della Natività; la Seconda parte, la più oscura, nella quale dominano i salmi, evoca la Passione e l’Ascensione; la Terza parte, la più breve, è dedicata alla Resurrezione e al Giudizio finale. La cinquantina di frammenti assemblati da Jennens, molti dei quali erano conosciuti a memoria dai fedeli, offre certo una lingua ricca di immagini, evocativa, sonora, ma concepita più per l’arringa che per il canto, spesso primitiva nel suo vocabolario e priva di struttura poetica».

Se consideriamo le parole di Handel riportate da Hawkins – «Ho avuto come l’impressione di vedere tutto il cielo aperto davanti a me, e lo stesso Dio onnipotente» –, è del tutto legittimo pensare, come suggerisce Jean-François Labie, «che George Frideric era assolutamente cosciente della grande novità che rappresentava il Messia dal punto di vista musicale, più ancora che in quello della drammaturgia religiosa. Un’ipotesi si fa allettante: così come Athalia, il primo oratorio nel quale si era messo alla prova nel tentativo di allontanarsi dai sentieri già battuti, era stato rappresentato per la prima volta a Oxford prima di essere sottoposto al giudizio dei londinesi, allo stesso modo avrebbe desiderato presentare un’opera tanto radicalmente nuova come il Messia in una città diversa da Londra. L’invito a Dublino gli dava un’occasione in questo senso. Una grande città provinciale della Gran Bretagna valeva l’altra. Dublino o Oxford, l’importante era avere un campo di prova».

Racconta Jean Gallois: «Quanto al buon popolo di Londra, esso non si faceva questioni di sorta e, nei giardini di Mrs. Cooper e ancora di più a Vauxhall, applaudiva la Fireworks Music tratta dall’opera Atalanta. Da parte sua, il musicista compone in una vera e propria febbre creativa due nuovi monumenti: il Messia (scritto in ventiquattro giorni) […] e Sansone.» Dopo aver ricevuto il testo di Jennens poco prima, il 10 luglio 1741, Handel comincia a lavorare al Messia il 22 agosto. La partitura originale, di 259 pagine, mostra segni che denotano una scrittura frettolosa, come macchie, graffi e altre sviste non corrette, anche se il numero di errori è notevolmente basso se si considera la lunghezza del documento. Le annotazioni indicano che egli termina la Prima parte intorno al 28 agosto, la Seconda il 6 settembre e la Terza il 12 settembre. Dopo due giorni dedicati alle correzioni, il 14 settembre porta a termine il lavoro. Immediatamente dopo si dedica al Sansone, che completerà il 29 ottobre. «Il 31, sfidando tutti – continua J. Gallois –, ha l’audacia di andare all’Haymarket ad ascoltare Alessandro in Persia, un pasticcio senza alcun valore che, come il vestito di Arlecchino, raggruppava pagine di Johann Adolph Hasse, Leonardo Leo, Giuseppe Arena, Giovanni Battista Lampugnani e Giuseppe Scarlatti… Cinque giorni dopo, rispondendo all’invito di William Cavendish, tredicesimo duca del Devonshire e Lord luogotenente d’Irlanda, Handel lasciava Londra per Dublino».

La prima del Messia a Dublino ebbe luogo a mezzogiorno di giovedì 13 aprile 1742 sul palcoscenico del New Music-Hall, una sala piuttosto modesta, di seicento posti. Per l’occasione Handel aveva assegnato le arie dell’opera a un numero di solisti maggiore rispetto a quanto non si usi fare ai giorni nostri: due soprani, tre contralti (una donna e due uomini), due tenori e due bassi. La tournée irlandese intrapresa da Handel fu così trionfale e l’attesa suscitata dal suo oratorio tanto grande che si permise di far entrare in sala un pubblico più numeroso, raccomandando peraltro alle dame di indossare vestiti senza panier e agli uomini di non portare la spada! Si riteneva che questo piccolo sacrificio di vanità permettesse l’accesso di cento persone in più.

La cosa fu meno semplice per Handel nel marzo del 1743, in occasione della presentazione britannica del Messia, allorché Londra si mostrò meno clemente di Dublino: quando decide di riprendere la sua partitura, per non turbare l’arcivescovo e le anime pie Handel ha cura di non annunciare l’opera che presenta semplicemente come «oratorio sacro». Precauzione insufficiente. I libelli di protesta piovono copiosi: «Un oratorio è un atto religioso o non lo è», sottilizza un oppositore. «Se questo è un atto religioso, mi chiedo se il teatro sia un tempio conveniente per la sua celebrazione. Ma se si tratta semplicemente di un divertissement e di un modo di svagarsi, quale profanazione del nome e della parola di Dio!». Bisogna attribuire il fallimento londinese del Messia al numero eccessivo di cori (20 su 52 numeri), come fa Jean-François Labie, il quale ricorda che l’affresco corale Israel in Egypt aveva avuto la stessa sorte? O alla modernità di una partitura che non proponeva nessuna trama drammatica, senza per questo sconfinare nei codici della liturgia? Una delle critiche più ingiuste e incomprensibili fu formulata proprio dal librettista Charles Jennens a un corrispondente sconosciuto: «Vi mostrerò una raccolta che ho dato a Handel; s’intitola Messia e attribuisco a essa un valore particolare. Ne ha fatto una bell’opera, ma di certo non così buona come avrebbe dovuto essere. Con grande fatica ho potuto fargli correggere qualcuno dei difetti più grossolani della sua composizione, ma si è ostinato a voler conservare l’ouverture, alcuni passaggi della quale sono indegni di lui, e ancora di più del Messia».

La guerra dei libelli sarebbe durata ancora molti mesi, arrecando un danno considerevole alla fortuna dell’oratorio. Al contrario dei concerti irlandesi che erano stati un autentico trionfo, a Londra Handel dovrà limitarsi a due sole rappresentazioni del Messia nel 1743, mentre nel 1744 non ne farà addirittura nessuna. Handel credeva tuttavia nella propria opera, e la riprese quasi tutti gli anni fino a raggiungere finalmente il successo a metà degli anni Cinquanta. Si racconta che, durante la prima, lo stesso re Giorgio II si fosse alzato in piedi nell’ascoltare l’esplosione di gioia dell’Alleluia (nel quale la parola «alleluia» viene ripetuta per settanta volte e dove si canta For the Lord God omnipotent reigneth). Ebbe così inizio la tradizione (britannica, americana, norvegese, ecc.) che vuole che, a ogni esecuzione, il pubblico si alzi in piedi a questo punto dell’opera.

Il Messia accompagnò Handel fino alla fine: si tratta, tra l’altro, dell’ultima opera diretta dal compositore, all’epoca ormai cieco, otto giorni prima della sua morte, avvenuta il 6 aprile 1759… Come afferma Olivier Rouvière, «queste riprese sono l’occasione di riflessioni costanti, soprattutto in merito alle arie. In tutte le sue versioni l’oratorio conserva peraltro le sue due uniche arie da capo (ABA, forma privilegiata dall’opera), immense meditazioni collocate nelle parti dedicate alla Passione e alla Resurrezione: He was despised per alto, con la sua linea spoglia e spezzettata che descrive in modo straziante il supplizio di Cristo, “abbandonato” dall’orchestra, presenta una sezione centrale più breve e quasi terrorizzante con i suoi cromatismi e la descrizione realistica dei colpi di frusta. Al contrario, le sezioni principali di The trumpet shall sound sviluppano un implacabile duello tra la tromba del Giudizio finale e la voce del basso, mentre la parte centrale, accompagnata soltanto dal basso continuo, descrive con calma raggelante il mondo dopo l’Apocalisse».

Dal punto di vista orchestrale, il Messia è fin dall’inizio uno degli oratori più spogli di Handel; in occasione della prima esecuzione, il Sassone distribuisce le arie tra nove solisti, prevedendo solo un’orchestra di archi a tre parti arricchita di due trombe e delle percussioni, utilizzate peraltro soltanto in alcuni punti dell’opera. Né gli oboi né probabilmente i fagotti, che rappresentavano le falangi tradizionali del tempo, erano presenti a Dublino, e non vi si trovano nemmeno il flauto, il corno, il trombone, l’arpa, né altri strumenti rari presenti in altre partiture handeliane. Se non conosciamo l’organico esatto che eseguì l’opera, è comunque ipotizzabile una falange formata da una ventina di musicisti. Certamente, mentre l’autore era ancora in vita, e per sua propria mano, l’opera conobbe diverse versioni, testimoniate da uno spartito autografo del 1741 e da una copia che reca la data dell’anno successivo, la quale è molto probabilmente conforme all’esecuzione originale, nonché dal famoso materiale detto «del Foundling Hospital» (1754), conferito per testamento a questo istituto e corrispondente alle interpretazioni che vi diresse il compositore – o i suoi assistenti – negli anni Cinquanta. Il Messia resta dunque il più noto degli oratori handeliani e il suo successo popolare non sarà mai smentito: dopo la morte del compositore sarà continuamente interpretato in Gran Bretagna, pur essendo in origine, dal punto di vista orchestrale, uno dei suoi oratori più austeri. Peraltro nel 1784, venticinque anni dopo la morte del musicista, il Messia viene eseguito all’Abbazia di Westminster da 265 strumentisti e 300 coristi, mentre nel 1883 le interpretazioni al Crystal Palace riunivano più di quattromila esecutori: la “tradizione” si è dunque appropriata dell’opera con una disinvoltura sconcertante, un fatto che testimonia della sua adattabilità, ma che contribuisce anche a sfigurarla nel corso del tempo.

Per realizzare la nostra versione abbiamo utilizzato come base la partitura autografa conservata nella British Library di Londra con la segnatura R.M.20.F.2, completata dall’integrazione delle parti di oboe che si trovano nelle parti strumentali manoscritte usate nella versione interpretata al Foundling Hospital nel 1754. La versione che presentiamo è stata preparata nell’ambito della residenza del Concert des Nations presso le Saline Reali di Arc-et-Senans, alla quale sono seguiti i concerti a Dôle, a Besançon, a Parigi (Philharmonie), nella Cappella Reale di Versailles (luogo della registrazione) e a Barcellona (Palau de la Música Catalana).

Il Messia di Handel è diventato uno degli oratori più popolari di tutti i tempi grazie alla straordinaria bellezza e alla ricchezza dei cori, delle arie e dei recitativi, ma anche per il fatto di essere una delle rare composizioni antiche che, come il Miserere di Allegri, sono riuscite a sopravvivere all’oblio del tempo: un’amnesia peculiare che colpì senza eccezioni tutte le musiche precedenti al Classicismo, almeno fino alla riscoperta dell’opera di J.S. Bach con l’interpretazione della sua Passione secondo San Matteo nel 1829 a Berlino sotto la direzione di Felix Mendelssohn Bartholdy (all’epoca un giovane direttore di vent’anni).

Nel Messia di Handel troviamo all’opera, con una meravigliosa diversità, tutte le forme d’espressione e di declamazione vocale e strumentale caratteristiche del linguaggio barocco. Siamo di fronte a una sublime meditazione musicale che oltrepassa la semplice narrazione per raggiungere, lontano dal realismo di Gesù, il mistero stesso della Creazione e della Redenzione attraverso una triplice riflessione sulla lotta tra Luce e Tenebre, sulla redenzione dell’Umanità e infine sul rapporto tra Dio e gli Uomini.

JORDI SAVALL

Bellaterra, 11 settembre 2019

Traduzione: Paolino Nappi

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